Marco Mozzoni (2023).
To be a good leader, one must first be a good person and virtues are how we become good people.
Articolo completo. I nostri leader sono in grado di fare fronte alle crisi attuali? Se lo chiedono, tra gli altri, Toby Newstead e colleghi in un libro fresco di stampa dal titolo singolare: Leadership and Virtues [1]. Per essere un buon leader – spiegano – fondamentali sono le virtù: il coraggio dà la forza di difendere i propri ideali, nonostante i rischi che possono comportare; l’umanità unisce le persone, infondendo un senso di appartenenza; la giustizia implica equità, imparzialità, responsabilità; la temperanza preserva dall’eccesso, incoraggiando alla pazienza, all’accettazione, alla pace; la trascendenza garantisce connessioni intangibili tra passato presente futuro, verso un “sé” più elevato; la saggezza stimola la curiosità, l’apprendimento, la “mente aperta”, la considerazione di differenti prospettive. “Universali e senza tempo, di virtù abbiamo bisogno per sopravvivere insieme”. La lettura del volume scorre in un fiato, in un volo che tocca Aristotele, Confucio, le prospettive indigene degli Aborigeni australiani, per atterrare alle “cinque strategie” di The Virtues Project [2], iniziativa globale destinata a “ispirare le persone di tutte le culture, ricordandoci chi veramente siamo per vivere secondo i nostri più alti valori”.
Tra questi, è la responsabilità che ad Harvard considerano essenziale per potersi ritenere un vero leader nel mondo del business. E se non se ne intendono loro… Geoffrey Jones e colleghi pubblicano quest’anno Deeply Responsible Business [3], ricordando le parole profetiche di Wallace B. Donham alla fondazione della Harvard Business School, il 4 giugno 1927: “i progressi scientifici posso aprire nuove opportunità per la felicità, ma queste non saranno garantite senza un alto livello di responsabilità”. Per il preside della nuova scuola di economia del Massachusetts, infatti, i business leader avrebbero dovuto sviluppare, unitamente a una “visione ampia e intelligente”, una “coscienza sociale”. Ai suoi tempi Donham lamentava la carenza di leader competenti per fare fronte alla “complicate questioni sociali, politiche, internazionali che minacciano la civilizzazione”. Lo diceva in pieno boom economico, i “ruggenti anni venti”. Per questo gli davano dell’eccentrico, quando non del matto. Venti mesi dopo, il crollo di Wall Street e la “grande depressione”. Aveva ragione lui. Nel frattempo, di là dell’Oceano, Hitler cavalcava il malcontento germanico, preparandosi a diventare un leader con pieni poteri.
Ovvio che non c’è solo il profitto delle aziende a cui guardare. Singolare però che sia proprio Harvard oggi a suggerire “il miglior modo per reimmaginare il capitalismo come sistema: reimmaginare il business e i suoi propositi sociali”. Può sembrare naïve, dice l’autore, ma il successo non va misurato soltanto in pecunia, se vogliamo “migliorare la società e risolvere i problemi del mondo”.
Insomma, nella cassetta degli attrezzi dei leader devono esserci anche i “valori”, non solo materiali: tra questi, onestà, generosità, lealtà, compassione, saggezza pratica nei termini della “phronesis” di cui parlava appunto lo Stagirita.
Soprattutto, non deve mancare l’autenticità. Di ciò è convinto Spencer Shaw della Copenhagen Business School, che ha appena dato alle stampe The Philosophy of Authentic Leadership [4]. I tempi in cui i Filosofi guardavano dall’alto le attività di business come “mercenarie” sono finiti, afferma: “la Filosofia, dopo tutto, è la ricerca della conoscenza dei principi fondamentali della realtà” ed essa può osservare il business sia a livello micro (attività individuale, condotta pratica, ecc.) che macro (ideologico, strategico, politico, spirituale). Tutte le correnti discussioni sulla “corporate social responsibility”, sulla sostenibilità, sui consumi etici, non possono non avere radici nelle discussioni dei grandi Filosofi del passato. In quest’ottica è possibile esplorare la natura della leadership non soltanto in termini di soggettività personale (aka interessi particolari) ma da una prospettiva squisitamente sociale. In termini pragmatici, i leader “autentici” costruiscono ponti empatici con i propri collaboratori, da intendersi non tanto in termini di attrazione o impulso, ma – da un lato – di comprensione pratica dei reali interessi, dall’altro del sentirsi “presi in carico da chi ha il potere”.
E qui molti si chiedono “dove sono andati tutti i leader”. Perché il leader autentico non deve domandarsi “chi sono io?”, ma “chi siamo noi?” Il leader autentico – conclude infine l’Autore – non è l’espressione di una autonomia in termini di desideri personali, ma una sorta di “impresa sociale” strettamente legata agli altri, con connessioni solidificate da “fiducia e integrità”.
I leader infatti non sono soli in mezzo a un deserto. Che fare allora quando la stessa cultura organizzativa è “tossica”? Ne parla Susan Hetrick in Toxic Organizational Cultures and Leadership [5], portando i riflettori sul “lato oscuro della corporate culture” che ancora oggi alimenta il crimine fraudolento. Secondo una indagine di Gallup, in USA il 50% dei lavoratori lascerebbe la propria azienda (non solo privata) per queste ragioni. Devianti, aberranti, pericolosi. Sono i termini che meglio descrivono questi ambienti e le persone (leader ma non solo) che ci sguazzano.
Qui in Italia ne avevamo parlato fuori dai denti già nel lontano 2012, mettendo a punto la Corporate Psychopaths Theory [6]. “Se non abbiamo ancora trovato soluzioni alla crisi mondiale – riflettevamo – forse ne stiamo comprendendo l’origine in quella dimensione psicopatica di decisioni finanziarie e industriali dannose per la comunità e vantaggiose per i pochissimi che l’hanno generata. Come è possibile che i tratti psicopatici, con una strutturale attività di predazione intraspecie, siano sopravvissuti all’evoluzione e in grado di condizionare anche pesantemente il potere a vari livelli?”
È un cane che si morde la coda. Un po’ ai geni, un po’ all’ambiente, alla fine. E la frittata è fatta. Ma da qualche finestra, se non proprio dalla porta principale, bisognerà pur uscirne.
La Hetrick, dopo una analisi dettagliata di come nascono e prosperano le dinamiche tossiche nelle organizzazioni, abbozza qualche soluzione nel modello “Respect”: riallineare i valori istituzionali misurando il coinvolgimento e l’inclusione; garantire la sicurezza psicologica dei lavoratori; rinforzare la leadership quale modello di comportamento; elevare il benessere organizzativo; eliminare definitivamente i comportamenti tossici; ripensare i processi di carriera. Insomma, diffondere una “cultura sana” nel contesto lavorativo.
E se “la fiducia è la questione centrale nelle relazioni umane, senza fiducia non puoi essere un leader”. Parola degli americani Kouzes e Posner, che in The Leadership Challenge [7] ci danno le dritte su come indurre gli altri a rendere possibili cose straordinarie, trasformare valori in azioni, visioni in realtà, ostacoli in innovazioni, conflitti in solidarietà, rischi in soddisfazioni.
Ma è davvero così facile? Soprattutto, siamo davvero sicuri che i leader siano ancora (se mai lo sono stati) così necessari?
Note:
[1] Toby P. Newstead, Ronald E. Riggio (editors), “Leadership and Virtues. Understanding and Practicing Good Leadership”, Routledge, 2023
[2] https://www.virtuesproject.com/
[3] Geoffrey Jones, “Deeply Responsible Business. A Global Hystory of Values-Driven Leadership”, Harvard University Press, 2023
[4] Spencer Shaw, “The Philosophy of Authentic Leadership”, Springer, 2023
[5] Susan Hetrick, “Toxic Organizational Cultures and Leadership. How to Build and Sustain a Healthy Workplace”, Routledge, 2023
[6] Ambrogio Pennati, Isabella Merzagora, Marco Mozzoni, “Psicopatici e crisi finanziaria: la Corporate Psychopaths Theory”, Brainfactor, 26/11/2012
[7] James M. Kouzes, Barry Z. Posner, “The Leadershi Challenge. How to Make Extraordinary Things Happen in Organizations”, Wiley and Sons, 2023
Articolo pubblicato su Reputation Today numero 37/2024